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lunedì 20 maggio 2019

Mio fratello

Chissà se sono l'unica ad aver pensato che agli inizi della sua carriera musicale Biagio Antonacci somigliasse in maniera impressionante a Jesse Borrego (l'indimenticato e indimenticabile Jesse Velasquez che faceva coppia con la talentuosa Nia Peeples - alias Nicole Chapman - nella serie Fame e che aveva fatto sognare generazioni di adolescenti)...Ve lo ricordate quando si dibatteva contro la recinzione di un aeroporto dismesso nel videoclip di Liberatemi?

Beh, di tempo ne è passato da quel lontano 1992 e di brani di successo il cantautore milanese ce ne ha regalati tanti.
Mio fratello era stato uno dei "tormentoni" di un paio di estati fa. Ricordo di esserne rimasta stregata fin dal primissimo ascolto, di aver percepito immediatamente nel testo e nella sua musicalità qualcosa di profondamente familiare che mi attirava facendo riecheggiare dentro di me saperi e sensazioni d'altri tempi.
La canzone è una sorta di "parabola del figliol prodigo 2.0", una vicenda dall'antico sapore biblico, eppure insieme del tutto laica e modernissima. Racconta di due fratelli di sangue, di come uno - ribelle e insoddisfatto da sempre - a un certo punto della propria esistenza si perda dietro a sogni di gloria e grandezza, di come l'altro - fortemente attaccato alle proprie radici - covi la rabbia per quel giovane ingrato e trasgressivo, fino a quando il primo decide di tornare e il secondo sceglie la via del perdono salvando entrambi dall'odio e dal risentimento.

Una storia intramontabile, condivisa dagli uomini di ogni quando e di ogni dove, affidata però a sonorità talmente inconfondibili da avermi immediatamente catapultata nella campagna del nostro profondo Sud...così, ad ogni passaggio in radio, mi pareva di respirarla davvero quell'atmosfera drammatica e di vedermeli lì, nitidamente ritratti dalle note, gli attori di quell'atavica saga familiare...quel padre segnato dal tempo e dalla fatica, inerme di fronte all'insoddisfazione del figlio così diverso, così impenetrabile...e quella madre vestita di nero, curva sotto il peso degli anni e del dolore, incapace di rassegnarsi a quell'inaccettabile assenza.

A mio padre Mio fratello non piaceva; un giorno ne avevamo parlato e io mi ero sentita quasi in dovere di difenderlo questo pezzo, quasi fosse un amico bisognoso di qualcuno che perorasse la sua causa di fronte a chiunque non fosse disposto a dargli fiducia.
Allora mi ero documentata e avevo scoperto che il video porta la firma di Gabriele Muccino, che era stato girato in un'azienda agricola nei pressi di Roma, che a interpretarlo erano stati chiamati due veri fratelli di sangue, Beppe e Rosario Fiorello, catanesi d.o.c...e in quel cortometraggio d'autore, dalla patina seppiata delle fotografie d'epoca, avevo ritrovato le stesse emozioni nate dai precedenti ascolti.

Ma la sorpresa più grande era stata indagare sulla parte finale della canzone, su quei versi in dialetto, del tutto incomprensibili per una lombarda d'origine, eppure estremamente affascinanti nel loro andamento frenetico e incalzante.
A interpretarli è Mario Incudine, artista di Enna, illustre esponente della musica popolare siciliana e di quella forma di "rap ante litteram" che porta il nome di cuntu. Noti già nel '500, i cuntisti videro la loro massima diffusione nella Sicilia del XIX secolo (nell'800 nella sola Palermo se ne contavano ben 18!); erano "raccontatori popolari professionisti" che al riparo dei magazzini nella stagione fredda e d'estate nelle piazze e nei giardini delle città intrattenevano un pubblico di soli uomini regalando storie di paladini e saraceni, di maghi e dame, di vizi da condannare e virtù da imitare. Autentici virtuosi della voce, erano maestri della parola recitata che modulavano sapientemente alternando momenti narrativi a sezioni dialogate.
Pur diversi dai più noti "cantastorie" (che, al contrario, cantavano prevalentemente di fatti di cronaca accompagnandosi con la chitarra o la fisarmonica), insieme a quelli, tuttavia, i "contastorie" siciliani si inserivano in una lunghissima tradizione di trovatori, menestrelli e giullari; ma soprattutto si facevano testimoni di quel legame inscindibile che la nostra splendida Magna Grecia continua a intrattenere con quella madre affacciata sull'Egeo, la patria di Omero, la terra di rapsodi e aedi di cui i cuntisti nostrani avevano raccolto l'eredità, facendosi custodi di quella millenaria cultura orale che aveva il potere di riunire e aggregare, in un'epoca lontana nella quale la fruizione di ogni forma d'arte e di conoscenza era inscindibile dal sentirsi parte di una comunità, nella quale i possessori di tali arti e di tali conoscenze ancora erano venerati quali preziosi tesori.

Da quella volta non mi è più capitato di parlare di questa canzone con mio padre...chissà se, dopo aver letto queste mie righe, gli verrà voglia di provare a riascoltarla...
Tu ça talii a mia pensa a taliari a tia
   (tu che guardi me pensa a guardare te stesso)
Lassami campari nuddu mi po’ giudicari
   (lasciami vivere nessuno mi può giudicare)
Tu ça talii a mia pensa a taliari a tia
   (tu che guardi me pensa a guardare te stesso)
Lassami cantari chista è sulu na canzuni
   (lasciami cantare questa è solo una canzone)
Calatili tutti li occhi se vi truvati davanti a li specchi
   (abbassate tutti gli occhi se vi trovate davanti gli specchi)
Ca tuttu chiddu ca nun si pò ammucciari
   (che tutto quello che non si può nascondere)
Agghiorna come la luci do suli
   (brilla come la luce del sole)
Tira la petra cu è senza piccatu
   (tiri la pietra chi è senza peccato)
Nun c’è cunnanna nun c’è cunnannatu
   (non c’è condanna non c’è condannato)
Haiu vistu lu munnu vutatu
   (ho visto il mondo sottosopra)
La pecura zoppa assicuta lu lupu
   (la pecora zoppa insegue il lupo)

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