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sabato 18 febbraio 2017

Lethe e Mnemosyne, inseparabili divinità

Acque del fiume Lethe,
Thomas Benjamin Kennington
Racconta Pausania che in Beozia, presso la città di Lebadea, sorgeva uno dei numerosissimi santuari di consultazione oracolare che era possibile incontrare in ogni parte del mondo greco.
La procedura imponeva che chi giungesse a interrogare il dio, scendesse nella grotta sotterranea preposta al ricevimento del responso solo dopo aver osservato una serie di riti di purificazione ed essersi abbeverato presso due diverse sorgenti che lì sgorgavano: le acque della prima (intitolata a Lethe) gli avrebbero fatto scordare la sua vita precedente, quelle della seconda (dedicata a Mnemosyne) lo avrebbero aiutato a rammentare le divine rivelazioni.
Molto prima di lui, Platone nel X libro della Repubblica aveva narrato i misteri legati alla reincarnazione delle anime, costrette a dissetarsi presso il Lethe (nell'immaginario mitologico degli antichi, uno dei 5 fiumi che scorrevano nell'Ade), prima di poter accedere alla nuova sorte che si erano scelte; al contrario, gli adepti dei culti orfici ritenevano che per le anime di passaggio nell'aldilà fosse indispensabile evitare le correnti letèe e accostarsi a quelle del lago Mnemosyne, per conservare nell'esistenza futura l'irrinunciabile traccia della loro origine divina.

Lethe e Mnemosyne, "Oblio" e "Memoria"...due figurazioni leggendarie dalla lunghissima tradizione...due entità dissimili tra loro, eppure così frequentemente accostate nel racconto da far sembrare impossibile che si parli dell'una senza che si racconti insieme anche l'altra...due divinità, arcaiche, potentissime, spaventose.
E' in questi ultimi termini che le descrive Esiodo nella Teogonia. Egli fa della prima la figlia di Eris, di "Discordia", progenie terribile nata da Notte; essa è lo sguardo fisso e paralizzante sulla finitezza di un presente fatto di fatica e miserie, è la consapevolezza annichilente dell'inesorabile precipitare di ogni cosa verso il nulla che tutto inghiotte. Della seconda, invece, la figlia di Gea e Urano, una Titanide, venuta prima dell'altra e più dell'altra detentrice di saperi misteriosi; è madre delle Muse, protettrici e ispiratrici delle arti straordinarie che celebrano le imprese gloriose degli uomini e le stirpi immortali degli dei, paradossalmente definite "oblio dei mali" (lesmosyne kakon), dispensatrici di quella dolce e rigenerante tregua dagli affanni che sola può contrastare la minaccia mortifera della figlia di Eris.
Lethe e Mnemosyne, dunque, dai contorni netti soltanto in apparenza, tanto "sorelle" da sovrapporsi continuamente l'una all'altra, da sconfinare molto spesso l'una nell'altra, da richiamarsi senza sosta, strette in un viluppo inestricabile che i molteplici usi linguistici non fanno che alimentare.
Mnemosyne, la madre delle Muse,
Frederic Leighton
Così accade nei primi versi dell'Iliade, in cui s'invoca la Musa, affinché ella canti l'"ira" di Achille, la sua menis, termine che nasce dalla stessa radice di "memoria", a dire una "collera che non passa", ciò che il greco definisce a-laston ("in-dimenticabile", come quella di Elettra della quale leggerete oggi); un eccesso di ricordo descritto come "non-oblio", un sentimento sempre presente a se stesso, un'ossessione da cui non c'è sollievo come è Lethe, del quale solo un dio può ammansire l'infinita carica distruttiva.
Così è nella parola "amnistia" che dice il dimenticare con la negazione del suo contrario, una cancellazione che viene da Mnemosyne.

Difficile orientarsi nei meandri di un simile groviglio, difficile rintracciare un "filo di Arianna" da seguire per non perdersi in questo labirinto; meglio diffidare di qualunque semplificazione, perché nulla sfugge al marchio dell'ambiguo, neppure laddove sarebbe naturale aspettarselo, neppure se ad essere in gioco sono il silenzio del dolore o la sua conservazione.
Questo almeno sembra voler dire Eschilo nel suo Prometeo incatenato, il Titano punito per aver rubato il fuoco e averlo offerto agli uomini, consentendo loro di sviluppare tutte le tecniche. Perché non è stato quello il suo dono più grande al genere umano, ben più importante è stato regalargli la cieca speranza, tremendo pharmakon, "antidoto" che gli ha permesso di distogliere il pensiero dalla certezza della propria morte e di poter così progettare un futuro, e insieme "veleno" che l'ha irrimediabilmente ingannato spingendolo ad agire come se la sua vita non dovesse mai più finire; un medicamento, dunque, che è diventato malattia, una via di salvezza e una nuova condanna.

L'isola di Calipso, Herbert James Draper
Questo sembra voler suggerire Omero nell'altro suo grande poema, quando racconta della misteriosa bevanda somministrata da Elena a Telemaco, travolto dall'inconsolabile nostalgia del padre lontano, perché ancora una volta si tratta di un pharmakon, capace di placare l'angoscia, ma tanto efficace da poter inibire il pianto persino davanti all'eventuale perdita degli affetti più cari, ancora una volta un rimedio che è insieme tacitazione di ogni palpito di umanità...
...o quando, dopo aver tentato ripetutamente Odisseo con le lusinghe anestetizzanti dell'incoscienza (presso i Lotofagi divoratori di un cibo che addormenta il desiderio del ritorno, o nell'isola dove Circe ruba ai naviganti la forma di uomini alienandone profondamente anche la natura, o ancora in mezzo alle Sirene che insidiose riempiono le orecchie di chi le ascolta con i blandimenti della vanagloria, e infine da Calipso con i suoi inviti all'immortalità), lo conduce finalmente alla terra dei Feaci; e qui trasforma il canto dell'aedo ispirato dalle Muse nell'amaro pungolo che fa riaffiorare nella mente di Odisseo l'eco delle passate fatiche, delle perdite, di tutte le sofferenze. Un risveglio penoso, certo, ma vitale, perché in grado di sciogliere le lacrime che lo rendono riconoscibile agli occhi del re Alcinoo, che lo aiutano a riappropriarsi del suo nome e con esso della possibilità di approdare a Itaca...a conclusione di un viaggio straordinario (metafora di quello che ogni uomo è chiamato ad affrontare dentro di sé) che solo attraverso la sofferta - ma indispensabile - riconquista della propria identità può davvero trovare compimento.

Cliccate qui sotto:
Antigone ed Elettra di Sofocle: viaggio tra memoria e oblio della violenza IV
...e buona lettura!

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