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venerdì 10 febbraio 2017

Una, cento, mille Antigoni

Sarajevo, settembre 1993. Bombardamento di
granate sulla via Maresciallo Tito. Foto di Mario Boccia
Sembra voler spiccare il volo la ragazza della foto...
Lo scatto del reporter l'ha immortalata così, nella tensione di una corsa che le concedesse un riparo dalle granate esplose poco distanti da lei...un giorno di ordinaria follia in una città sotto assedio.
Chissà come si vive, poi...sotto assedio...quando la paura diventa un'abitudine, quando la precarietà dell'esistenza non è una lezione che si lascia imparare col tempo, con calma, ma si ostenta in continuazione, con brutalità, si materializza nelle macerie degli edifici, nei cadaveri per strada, negli occhi che un istante prima contenevano mondi e un istante dopo smettono di vedere.
Chissà cosa portava la ragazza in quel sacchetto...magari qualcosa da mangiare, degli indumenti puliti, qualche fotografia...i resti di una vita travolta, che in quell'eterno passo sospeso lei sognava di salvare e di traghettare lontano da lì, o forse di poter ricostruire un giorno proprio a Sarajevo, in quella che era sempre stata la sua città, nella sua terra, nel suo mondo.

L'immagine fa da copertina a Il resto è silenzio, bellissimo libro di Chiara Ingrao, che fino a qualche settimana fa non conoscevo.
Mi ci sono imbattuta per caso (o per destino...) in questo romanzo; ero alla ricerca di un'idea, di uno spunto per la stesura di questo post...dovevo presentarvi l'Antigone di quel drammaturgo straordinario che è stato Sofocle, dovevo parlarvi della "mia Antigone", ri-studiata e ri-letta attraverso il filtro potente e fecondo della memoria, quando sullo schermo del computer è comparsa la scritta "Antigone di Sarajevo"...è stato sufficiente perché mi facessi travolgere, non ricordo neppure cosa avessi digitato per la mia indagine in rete, il richiamo è stato troppo forte, in breve mi ero già impossessata di una copia del testo e mi ero immersa nella lettura.

Nella finzione letteraria "Antigone di Sarajevo" è il titolo riservato dai giornali ad una giovane che, contravvenendo alle leggi in vigore, si era lasciata uccidere dai cecchini nel disperato tentativo di recuperare il cadavere di uno dei suoi due fratelli, quello che si era riconosciuto serbo e che aveva attaccato la sua città (l'altro era morto nel difenderla, perché al contrario si sentiva bosniaco). Slavenka era il suo nome e nella sua vicenda tutti avevano visto riflessa quella di Antigone, di quell'altra giovane che, rifiutandosi di obbedire al decreto del re Creonte, aveva rinunciato alla vita nel tentativo di dare sepoltura al corpo del fratello Polinice, morto da nemico della sua città, Tebe, vittima e a sua volta assassino dell'altro fratello, Eteocle, caduto da eroe in difesa della comune patria.
Inutile dire quanto mi sia sentita coinvolta, quanto profondamente le parole della Ingrao si siano fatte strada dentro di me fin dalle prime pagine...quanto in esse io abbia riconosciuto e amato la volontà di tornare a dialogare con gli antichi miti, di mostrare l'inesauribile ricchezza di quei racconti (perché è questo che mythos significa..."racconto"), di restituirne con sapienza l'intramontabile capacità di interrogare gli uomini di ogni tempo.

Sarajevo, febbraio 1994. Madre e
figlio si abbracciano prima di separarsi
sul ponte "Unità e fratellanza".
Il permesso di 48 ore è scaduto.
Foto di Mario Boccia
Reduce dall'intenso confronto con le turbolente sorellanze della famiglia Palmer, ho assaporato con piacere la rinnovata (e inattesa) possibilità di entrare nelle storie di tante altre donne, di immergermi nel complesso intreccio delle loro esistenze, sospese tra passato e presente, tra realtà e immaginario.
Del tutto sorprendente, invece, è stato ritrovare nello sguardo dell'autrice il mio stesso sguardo, nell'angolazione del suo punto di osservazione la mia stessa angolazione, lo stesso spazio riservato a quel "femminile" tanto discreto e sottratto da essere troppo spesso etichettato come debole e misconosciuto nella forza dirompente di cui, invece, è custode.

L'Antigone è indubbiamente una delle opere della classicità che nel corso dei secoli sono state maggiormente studiate e riproposte in ogni ambito della cultura, dalla letteratura al teatro, senza dimenticare il cinema. All'interno dei contesti storici e politici più disparati, la figura di Antigone è stata sempre (peraltro, erroneamente) elevata a simbolo di giustizia e invocata come paradigma di moralità, ha ispirato i dissidenti di ogni epoca e ha incarnato le istanze delle vittime di tutti i regimi; d'altro canto, più correttamente compresa nella sua intrinseca tragicità, ha rappresentato (e continua a rappresentare) le contraddizioni costitutive di una molteplicità di aspetti del vivere e dell'agire umano, sociale e soprattutto politico.
Ciononostante, non c'è Antigone/Slavenka al centro di questa trama, non è il suo sacrificio ad essere celebrato dalla Ingrao; il cuore pulsante di tutto è il personaggio di Musnida che, in seguito all'uccisione della sorella, fugge da Sarajevo per farvi ritorno solo dopo aver scavato a fondo nel passato della propria famiglia e del proprio paese, e aver ricostituito sulle memorie frammentate di quel passato la sua rinnovata identità.
Musnida, così ordinaria da passare inosservata, talmente introversa e silenziosa da diventare impenetrabile...Musnida la "pacifica", come dichiara il suo nome di origine musulmana...Musnida che non ha mai saputo cogliere nel suicidio del padre incarcerato un gesto di libertà, ma che vi ha sempre letto la stanchezza nei confronti del vivere; che sullo sfondo delle guerre dei Balcani, nell'epoca di un multiculturalismo segnato dagli scontri di etnie e civiltà più che dai loro incontri, ha rifiutato di schierarsi e di continuare ad alimentare quella logica della divisione e della contrapposizione che ha smembrato persino i suoi; che ha preso le distanze dalla decisione di Slavenka, scegliendo al contrario di deporre le armi e di provare ad inseguire un possibile sogno di libertà.

Mostar, dicembre 1996. Lavori di
restauro nella parte est della città.
Foto di Mario Boccia
Musnida che per riuscire a dire il suo dolore e la sua speranza si affida alle parole di Ismene, al vigore insospettato di quei pochi versi immortali che Sofocle ha deciso per quell'altra sorella, "minore" soltanto in apparenza...che come Ismene rischia di farsi annientare dal senso di colpa, ma che in fondo a quella sofferenza sa invece decifrare la paura per la fatica della ricostruzione che è richiesta ad ogni sopravvissuto...che da Ismene impara il coraggio di seguire la sua natura di "donna", di gridare il suo non essere fatta per la guerra al modo degli uomini, perché la sua (la loro) non è stata affatto una fuga, ma un'estrema dichiarazione di amore per la vita.

Cliccate qui sotto:
Antigone ed Elettra di Sofocle: viaggio tra memoria e oblio della violenza III
...e buona lettura!


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