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sabato 19 novembre 2016

Vicini a tavola, alleati nella vita

Avete mai fatto caso a quanta parte del nostro linguaggio e della nostra percezione del mondo abbia a che fare con il cibo?
Scommetto che è capitato anche a voi di giudicare "insipida" una persona, "gustosa" la visione di un film o "salato" un conto da pagare...di trovarvi magari coinvolti in una situazione "piccante" o di lasciarvi sopraffare dalla malinconia "agrodolce" di una giornata autunnale...di "assaporare" la pienezza di un incontro tanto atteso, di "divorare" avidamente le pagine di un libro, di "bervi" ingenui la menzogna raccontatavi da qualcuno...di sentirvi "nauseati" di fronte alla violenza di un'immagine, "disgustati" dalla volgarità di un atteggiamento, "digiuni" d'affetto, "affamati" di libertà...

Insomma, anche quando non le siamo seduti attorno, pare proprio che la tavola condizioni profondamente le nostre parole e i nostri pensieri. Eccessivo?...io direi, piuttosto, inevitabile!
In ogni quando e in ogni dove il gesto del nutrirsi non si è mai risolto nella mera (per quanto vitale!) necessità del sostentamento fisico; le infinite modalità di reperimento e preparazione degli alimenti sono sempre state riconosciute come pratiche fortemente connotate dal punto di vista culturale, veicoli privilegiati di tradizioni, valori, identità.
Ma c'è di più...il momento del pasto è a tutti gli effetti un atto sociale di validità universale: se la negazione di un vitto condiviso parla inequivocabilmente di rifiuto, chiusura, discriminazione, nulla più del fatto di mangiare insieme contribuisce a comunicare inclusione, vicinanza, familiarità.

Nell'antica Grecia, ad esempio, non solo si riconduceva ad una "questione di cibo" la consapevolezza di appartenere ad una stirpe - quella umana - totalmente altra da quella divina, ma attraverso il consumo comunitario delle varie porzioni di un animale immolato passava e si cementava addirittura il senso profondo di essere parte di una specifica collettività cittadina.
In uno dei suoi innumerevoli "miti di fondazione", Esiodo (Teogonia, vv. 535-616) racconta che nel corso dell'ultimo banchetto che aveva visto dei e mortali seduti ad un'unica mensa, l'uccisione e la successiva spartizione di un bue avevano decretato la definitiva separazione tra le due progenie: a quella divina erano state, infatti, riservate le ossa, simbolo di continuità, non commestibili, destinate a durare...a quella terrena le carni che, invece, devono essere consumate in fretta, prima che si decompongano, cifra inesorabile della stringente necessità di alimentarsi che ha l'uomo.
In questo stesso mito, poi, andavano ricercate le origini del perpetuarsi rituale di tutti quei sacrifici animali che di prassi sfociavano nella commensalità, che strutturavano l'intera vita della polis, che scandivano il calendario delle festività, che erano motivo ricorrente nella pittura vascolare e tema ispiratore di tanta letteratura, che all'interno di un preciso progetto politico contribuivano a rinsaldare la coesione tra i partecipanti al rito.

Che si tratti, dunque, di una sontuosa cena o di un frugale spuntino, non sembra esserci nessun dubbio: il fatto di ritrovarsi a spartire con qualcuno il medesimo desco finisce inevitabilmente per interrogare sullo stato del proprio essere in relazione col mondo e continua a confermarsi condizione privilegiata per far sì che ci si sveli, si generi intimità, cresca la confidenza.
Pensate alla molteplicità di situazioni nelle quali la necessità o il piacere di incontrarsi nascano o siano coronati dal naturale consumo di un pasto, dall'immancabile assaggio di una torta, dall'irrinunciabile offerta di un caffè...a quanti legami si celebrano, si scoprono, si coltivano, si rinsaldano con l'ausilio di una buona cucina...Ricordate Il pranzo di Babette o il più recente Chocolat? Ricordate lo stupore dei loro protagonisti all'inattesa rivelazione di quanto i piaceri del palato possano sciogliere le lingue, distendere gli animi, creare complicità?
Sarà per questo che mette tanta tristezza vedere qualcuno che consuma il proprio pasto da solo, quasi che istintivamente si percepisse qualcosa di profondamente sbagliato in quella solitudine, quasi che ci fosse un'universale legge non scritta che impone al cibo di essere "con".

Allora non sorprenderà scoprire come la parola convivio rimandi in prima istanza alla dimensione del "convivere" o la convivialità si spieghi innanzitutto quale "coabitazione" con altri cui si riconoscano gli stessi nostri bisogni.
Come non sorprenderà realizzare che il compagno linguisticamente è proprio "colui con il quale si ha in comune il pane", "colui che partecipa dello stesso vitto", al quale non si teme di offrire ciò che è essenziale per la vita, in altre parole la stessa vita.

2 commenti:

  1. Giusto quello che affermi mi viene da pensare al nostro pranzo domenicale quasi un rito guai se mancasse....

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    1. Una consuetudine davvero, per vedersi, raccontarsi la settimana, aggiornarsi sulle novità, discutere anche un po'...un appuntamento tutto da "gustare"!

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