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sabato 4 marzo 2017

Di memoria e verità, o della non-omissione

"Mio padre è stato ucciso a sangue freddo e i suoi assassini sono scappati. Non riesco a darmi pace perché è stato un atto di violenza gratuita compiuto per pura sete di sangue: è la prima volta che la mia famiglia e io siamo stati costretti a vivere così da vicino, e direttamente, l'orrore della violenza nel nostro paese...
...Si ostinava a non parlare e ho sentito dentro di me un'ira incontenibile che continuava a montare, lo guardavo pensando: "Come ti permetti, come osi?". Non ci ho visto più...ho preso la mia 9 mm., gli ho appoggiato la canna in mezzo agli occhi e gli ho piantato una pallottola in testa. Poi ho chiamato il colonnello via radio dicendogli che ne avevamo steso un altro e che mi sentivo stanco e chiedevo di rientrare".

No, non sono state due voci diverse a fare queste dichiarazioni; la voce è una sola, quella di un ex membro delle forze di sicurezza che di fronte a tutta la nazione aveva riferito di come il padre fosse stato ucciso nel corso di un'imboscata nel giugno del 1996; sbigottito e attonito, non riusciva a spiegarsi un gesto tanto crudele, lui che aveva poi continuato il suo racconto confessando che molto tempo prima aveva sparato altrettanto crudelmente ad un militante della SWAPO (il movimento di liberazione della Namibia)...e no, non è l'unica testimonianza sconvolgente a figurare in questo libro-reportage che di testimonianze ne riporta ventuno, una ristrettissima selezione delle innumerevoli storie di abusi raccolte tra il '96 e il '98 dagli operatori di questo tribunale sudafricano del tutto eccezionale.
Istituita nel 1995 e rimasta attiva per i successivi tre anni, la Commissione per la Verità e la Riconciliazione, voluta da Mandela e presieduta dall'arcivescovo Tutu, si era assunta il delicatissimo compito di accompagnare il Paese nel difficile passaggio dal regime segregazionista al nuovo assetto democratico, intercettando il desiderio di superamento del passato promosso dal precedente governo e il vitale bisogno di giustizia delle organizzazioni di lotta all'apartheid, trasformando quella che potenzialmente avrebbe potuto degenerare in un'ulteriore esplosione di odio e vendetta in un'occasione di lucido confronto e di autentica ricostruzione.

Le pagine che vi lascio oggi sono le ultime di questo percorso che, dopo essersi inoltrato nelle profondità dell'antico, torna al presente e si conclude in un paese che, uscito martoriato da decenni di violenza e straziato dall'orrore, ha deciso di fare proprio della potenza del ricordo la chiave di una possibile (seppur dolorosa) rinascita.
Il coraggio del film, di cui vi parlerò in quelle pagine, e del suo regista Ian Gabriel è anche quello di questo libro e dei suoi autori, Danilo Franchi e Laura Miani; lo stesso che traspare da ogni parola di quell'altra opera straordinaria (La banalità del male) che Hannah Arendt scrisse dopo la conclusione del processo ad Adolph Eichmann, opera che fece scalpore quando fu pubblicata nel lontano 1963 e fu ampiamente criticata per l'impopolarità di tante sue affermazioni, opera che ci riporta indietro nel tempo, al punto esatto in cui questo lungo viaggio ha avuto inizio.
Hannah Arendt
E' il coraggio di aver dato spazio anche al dramma dei carnefici accanto a quello delle loro vittime, di aver insegnato la cautela, perché a volte non è neppure così facile distinguere gli uni dalle altre...di aver ammonito a non nascondersi dietro quei facili e consolatori giudizi sommari che tacciano di diabolica follia e di aberrante bestialità i comportamenti che paiono così lontani dall'umano, perché, laddove il crimine diventa sistema e la violenza scelta politica, il naufragio morale dilaga e anche il ricorso alle pratiche più agghiaccianti può trasformarsi nella più ordinaria routine.

Uno dei compiti più difficili, che i membri della Commissione si assunsero, fu quello di decidere a chi dovesse essere concessa l'amnistia (che riguardava solo i crimini di matrice espressamente ideologico-politica, compiuti tra il 1960 e il 1994). Ad ottenerla furono circa 900 dei 7000 richiedenti; la condizione essenziale era la resa pubblica di una confessione quanto più precisa e particolareggiata di ogni singolo gesto compiuto ai danni di ogni singola vittima...non erano né il rimorso né il pentimento, insomma, il prezzo per sfuggire alla condanna, bensì la verità.
Nel greco antico "verità" si diceva aletheia, termine dall'etimologia incerta, ma che pare i Greci accostassero ad una radice lath- da cui il ben noto lethe e un verbo come lanthanein che rimandava al "passare inosservato", allo "sfuggire all'attenzione" da parte di qualcosa che potenzialmente era sotto gli occhi di tutti e che da tutti era potenzialmente percepibile. Una ricerca del vero, dunque, che - in ragione dell'alfa privativo con cui la parola iniziava e che di quella radice annullava il senso (a-letheia) - per gli uomini di allora si configurava come un racconto dettagliato di sé e del mondo, che rimandava alla necessità di non omettere nessun aspetto di ciò di cui si doveva riferire...un invito per gli uomini di ogni epoca a non chiudere gli occhi di fronte alla realtà, a tenere sempre alta la consapevolezza e viva la coscienza, per evitare che la mancata assunzione delle proprie responsabilità trascini verso quelle spirali del male in cui nessuno immaginerebbe mai di potersi trovare coinvolto.

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Antigone ed Elettra di Sofocle: viaggio tra memoria e oblio della violenza V
...e buona lettura!

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