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sabato 20 agosto 2016

Nel paese dei ciechi

Herbert George Wells
"Si fermò, come interdetto, di fronte a tanta bellezza! E a mano a mano che le nebbie della valle si diradavano cedendo il posto alla luce, dai recessi della sua mente iniziarono ad emergere le immagini di tutte le città che aveva visitato, le forme di tutte le montagne che aveva conquistato, le parole di tutti i libri che aveva letto. Si lasciò attraversare da quel fiume di ricordi, sentendosi come se si stesse risvegliando da un lungo stranissimo sogno.
Il suo pensiero corse a Medina che forse lo stava aspettando...sentì una stretta al cuore e iniziò a piangere. Allora comprese quanto l’avesse illusa, quanto entrambi si fossero illusi scambiando per amore l’urgenza di colmare un vuoto, credendo che fosse sufficiente…proprio allora che, nonostante la stanchezza, la fame, l’incertezza sul futuro e la solitudine, riusciva a provare una felicità mai conosciuta prima! Di colpo dall'altopiano su cui si trovava l’idea di passare il resto dei suoi giorni con lei gli sembrò remota quanto il villaggio stesso…quel villaggio dove era giunto sperando di salvarsi e dove, pensando di dover (e di poter) salvare gli altri, aveva rischiato di perdere se stesso in tutti i modi in cui un uomo può perdersi!
Provò ammirazione e pietà per quella gente, fascino e commiserazione insieme. Per qualche istante lottò con l’impulso di tornare, ma fu una lotta breve…ormai sapeva che “l’orbo non può essere re tra i ciechi”! Chissà, forse un giorno sarebbe tornato, magari non da solo, magari con qualcuno del suo mondo…allora sì che l’avrebbero ascoltato, avrebbero dovuto ascoltarlo!…ma non in quel momento, non in quel modo, non a quelle condizioni!
Trasse un profondo respiro, con le mani si schermò dal chiarore ormai quasi accecante e si guardò intorno. Scrutò in ogni direzione, ispezionò ogni anfratto, alzò lo sguardo e la vide…i suoi occhi gli stavano indicando la via della salvezza
".

Così scrivevo qualche anno fa, immaginando di dare una mia conclusione ad un breve romanzo di H. G. Wells.
Nel paese dei ciechi presenta la singolare vicenda di Nùnez, abile scalatore, che, sperduto tra le Ande in seguito ad un incidente, approda miracolosamente ad un piccolo borgo nascosto tra le cime, un luogo misterioso la cui esistenza è stata da tempo relegata a leggenda. I suoi abitanti sono completamente ciechi da ben 14 generazioni; frutto di una curiosa commistione tra fantascienza e teorie evoluzionistiche, il racconto fa di tale cecità il risultato del progressivo aggravarsi di un difetto visivo degli antenati che, non curato, aveva finito per colpire tutti irrevocabilmente.
La convivenza tra l'inatteso ospite e i membri della comunità si trascina faticosa, fino a quando essi impongono a Nùnez la definitiva rinuncia a quell'incomprensibile facoltà che egli chiama "vista" come condizione per poter continuare a stare con loro e unirsi in matrimonio ad una delle loro donne.

"...ma, nell'andare, alzò gli occhi e vide il mattino...": qui avevo sospeso la lettura del testo e da qui avevo fatto iniziare la mia ipotesi di narrazione, come richiesto da una delle prove di quel bellissimo corso di scrittura creativa di cui vi ho già più volte parlato.
Avevo regalato al "mio" Nùnez una via di fuga, mi era sembrato inevitabile preservarlo dall'assurdo di essere privato di un tratto così importante della sua persona, illogico consentire che accadesse...avevo deciso di risparmiargli quella pena nonostante l'atteggiamento supponente e presuntuoso da lui tenuto nei confronti dei ciechi che - contrariamente a qualunque aspettativa! - quanto a supponenza e presunzione non erano stati da meno...avevo scelto per lui la solitudine, perché, se l'appartenenza ad un gruppo è essenziale al costituirsi di un'identità, non c'è minaccia peggiore per quella identità dell'irragionevole conformismo della massa che pretende di uniformare e soffocare!

Oggi come oggi non so cosa scriverei...infiniti sono gli interrogativi che un simile testo è capace di suscitare, infinite le implicazioni a livello antropologico, culturale, politico.
Non so dire con certezza quale destino riserverei a Nùnez...di certo so che quelle pagine sono di un'attualità disarmante in un tempo come il nostro, fatto di mobilità, spostamenti, incontri e scontri continui tra popoli e culture...so che il concetto di "normalità" è uno dei più opinabili e discutibili...so che non c'è cosa più difficile (e meravigliosa insieme!) che accorgersi dell'altro e imparare a guardare il mondo con i suoi occhi...so che la tolleranza e il rispetto possono facilmente sconfinare nell'isolamento e nell'indifferenza...e so che non è possibile entrare davvero in relazione con qualcuno senza morire un po' a se stessi...

Non vi svelerò ovviamente quale finale abbia pensato Wells per la sua storia...anzi, "quali finali", perché dopo una prima versione edita nel 1904 l'autore ne elaborò una seconda a distanza di 35 anni, alle soglie del secondo conflitto mondiale.
Lascio a voi il piacere di scoprirli entrambi...anche se prima potreste raccogliere la sfida e immaginarvi il vostro!

2 commenti:

  1. Amarsi e tollerare allo stesso tempo è la cosa più semplice e difficile allo stesso tempo

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    Risposte
    1. Già...la parola "tolleranza", però è molto ambigua! Un filosofo francese del secolo scorso ha scritto: "La tolleranza è una fase provvisoria. Essa permette a coloro che si amano di sopportarsi mutualmente, attendendo il momento in cui potersi amare".

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